Tradizionalità tramandata nel tempo…

CIBO E LETTERATURA

L’alimentazione è un elemento talmente importante e pervasivo nell’esperienza quotidiana, e può avere una tale forza evocativa, che è pressoché impossibile trovare un’opera letteraria che non abbia una qualche relazione con il cibo.

  Il grande romanzo che apre il Novecento letterario, l’Ulisse di Joyce, inizia illustrando i gusti del protagonista Leopold Bloom (vedi figura): «Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica».

Goldoni era solito conversare in caffè ben illuminati, un sorprendente Leopardi con il bicchiere in mano si sente libero dall’infausta ragione e forte come gli idoleggiati antichi, Manzoni mesce a Renzo il vino diabolico della rivoluzione e quello benedetto della grazia, Verga offre ai suoi vinti un bicchiere di quel dono divino che può diventare una trappola mortale; se Carducci brinda alla salute di un Satana vitale e progressista, il malinconico Pascoli trova nell’ebbrezza la metafora del vagheggiato oblio.

  Ma alla confluenza tra parola e gusto si possono inseguire percorsi più curiosi, nel Manifesto della cucina futurista (1930) Marinetti chiedeva «l’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana», a favore di un’alimentazione più attenta alla chimica. Si possono per esempio catalogare le «ricette d’autore» come «Risotto patrio» di Carlo Emilio Gadda nelle Meraviglie d’Italia.

Un altro itinerario letterario-gastronomico lo offre il tema della fame; partendo dalle fiabe e dalle più celebri maschere della Commedia dell’Arte, Arlecchino e Pulcinella, che trovano la loro energia di personaggi proprio in una fame mai soddisfatta di cibo e di sesso; al «paese della fame» di Piero Camporesi al quale si potrebbe affiancare la fantasia compensatoria del Paese di Bengodi, o di Cuccagna, dove si ergono montagne di formaggio e maccheroni, mentre nei fiumi scorre il vino.

  Per non parlare delle abboffate del gigante Gargantua (a sinistra) di Rabelais, oppure l’altro estremo occupato dal Digiunatore, protagonista di un frammento di Kafka il quale diceva: «sono costretto a digiunare… perché io non ho mai potuto trovare il cibo che mi piacesse. Se lo avessi trovato, credilo, non avrei fatto tante storie e mi sarei rimpinzato come te e tutti gli altri».

A una fame metafisica rimanda anche la misera carota che si dividono Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot di Beckett.

Attuale è l’alternanza di diete e cibo spazzatura, tra anoressia e bulimia, al centro dell’esilarante Diario di Bridget Jones (1998) di Helen Fielding, o come metafora del disagio interiore e della fame esistenziale, della Biografia della fame (2004) di Amélie Nothomb. 


Mentre troviamo i cuochi e gli osti protagonisti di testi teatrali e di romanzi: il Falstaff di Shakespeare e la Locandiera e Bottega del caffè di Goldoni.

Chi ha stomaco forte apprezzerà romanzi basati sul tema del cannibalismo: dal Tieste di Seneca (Atreo uccide i tre figli del fratello Tieste e nel corso di un banchetto gli offre le loro carni) al Titus Andronicus di Shakespeare (un’altra storia di vendetta dove il protagonista dà in pasto Chirone e Demetrio alla loro madre Tamora), fino ad Hannibal «The Cannibal» Lecter, il serial killer antropofago protagonista dei best-seller di Thomas Harris; senza dimenticare però l’horror del Conte Ugolino della Commedia dantesca, che per fame divora i propri figli.

Il mondo dei buongustai spazia in ogni ambito, dagli assassini fino ai loro avversari: risultano infatti numerosi i detective patiti della buona cucina, dal Maigret di Simenon al Nero Wolfe di Rex Stout, al commissario Montalbano di Andrea Camilleri.

  Le cui indagini vengono spesso inframmezzate da gustosi manicaretti.
I romanzi con il detective buongustaio sono diventati quasi un «sottogenere» letterario, e rischia di diventarlo anche il filone dei «romanzi golosi» o «gastronomici», ovvero i testi narrativi con ricette, e quelli che affidano al palato un ruolo centrale.

Autorevole precursore del genere, pur trattandosi di un libro di memorie, può essere considerato Il libro di cucina di Alice B. Toklas (1954), che racconta delle vicende di Gertrude Stein.
Negli ultimi anni numerosi autori hanno saputo coniugare il piacere della lettura con l’evocazione di piatti appetitosi. Un capostipite è senz’altro Donna Flor e i suoi due mariti di Amado (1966), seguito da Dolce come il cioccolato (1989) e la messicana Laura Esquivel, con Romanzo piccante in 12 puntate con ricette, amori e rimedi casalinghi, in cui i due giovani protagonisti, non potendo consumare il loro amore, comunicano la loro sensualità attraverso i manicaretti che lei gli prepara. Infine Joanne Harris con Chocolat.

I «romanzi golosi» possono diventare anche la chiave per esplorare inquietudini e insoddisfazioni attraverso luoghi e sapori carichi di echi simbolici. In Kitchen (1988) dove Banana Yoshimoto racconta il proprio disagio giovanile proprio partendo dal locale più caldo della casa, fin dalla prima frase: «Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina…»

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